venerdì 25 febbraio 2011

Le domande delle 2.37

Qual è la distanza che intercorre tra una relazione fine a sé stessa e una che inizia ad avere qualche lieve malessere? Quanto è giusto cercare la freddezza per evitare ciò che assilla la mente? Quante volte si possono commettere gli stessi sbagli, pur avendo capito la prima volta che non si dovrebbe agire così? Dalla molestia al corteggiamento il passo è breve? Quanto è giusto conoscere più uomini/donne in contemporanea? Qual è la concezione più adatta al tradimento? E' considerato un tradimento il portarsi a letto un altra/o donna/uomo o anche il solo coinvolgimento emotivo basta e avanza per far sì che la parola abbia un suo perché nel caso? Sarà il cicchettino di grappa ai frutti di bosco che mi rende così dubbiosa o è il preciclo che incombe come la morte con la sua falce e il mantello nero? Perché non sto più scrivendo? Perché F. continua a chiedermi di fare l'amore con lui se è fidanzato e afferma di amare la sua donna? Perché F. (l'altro) si ostina a volermi vedere a tutti i costi se è ben conscio che io non sono nemmeno un briciolo della donna che vorrebbe? Sarebbe giusto partire per andare a trovare una persona che non si è voluta nella vita? E a tal proposito quanto è giusto rinfrescare la memoria andando a pescare nel ricordi del passato una sola mattinata falsa e sbagliata? Perché ho un capello bianco e uno nero in mezzo a una marea di capelli castani?

Se qualcuno ha un briciolo di risposta vi prego fatemela sapere. Buona notte.

mercoledì 16 febbraio 2011

Uno, due, tre… Quattro, cinque, sei


INCIPIT: Mi dico che è il momento giusto e devo sbrigarmi. Certo, sarebbe più facile se ci fosse un foglio di carta: prenderei la penna e le parole non rimarrebbero incastrate in una vena del cervello o nella gola; scenderebbero fino alla mano, sporcherebbero il foglio, ci resterebbero attaccate con tutto quello che si portano dietro. E’ il potere della pagina bianca, credo. Ti risucchia e ti libera: è la tua possibilità di buttarti da un’altra parte.
“Allora?” mi chiede il mio editore, accendendosi una sigaretta.


“Ci sto lavorando!” mento spudoratamente, chiudendo il portatile, spero che lui creda che sia scaramantica, che non gli mostro lo schermo per evitare il non apprezzamento di quanto ho scritto sino ad ora… Sì ma cosa ho scritto? Il mio cervello è totalmente privo di ogni sorta di immagine mentale. Il nulla, il vuoto, l’assenza totale di tutto. Non c’è alcuna fotografia mentale, nessun colore, nessuna parola. Il bianco. Maledetto sia il bianco!
“Di preciso di cosa hai intenzione di scrivere questa volta?” aspira goloso e vizioso una boccata di veleno da quella sigaretta totalmente bianca. Eccolo! Ancora una volta quel colore nefasto. Deglutisco a vuoto alzando appena lo sguardo. Mi impongo di non arrossire, di non palesare, come al solito, quello che sto percependo, soprattutto con questa domanda che meriterebbe una risposta da un milione di dollari.
“Se te lo dico… Dopo dovrei ucciderti” sorrido e mi sento un ebete. I miei denti! Devo mostrarglieli di più. Ecco! Da brava allarga le labbra fino a sentire i muscoli delle guance tirarsi dolorosamente. Questa storia, questa lotta tra sorrisi falsi quanto una banconota da tre euro e le menzogne, vanno avanti già da sei mesi. Una tortura, ecco quello che è realmente. Ma questo obeso portatore di cancro che cosa può saperne?
Bravo! Vattene via! Non mi stressare più!

Finalmente se ne è andato, altre due ore e posso fuggire via da questa stanzetta dalle pareti bianche, di sicuro lo fanno di proposito. Mi riempiono la vita di un colore che addosso mi sta come un pugno in un occhio. Figuriamoci. Una prigionia vera e propria. Ok, lo ammetto, me la sono cercata. Da sei mesi mi hanno costretta a lavorare in questo bunker di scrittori da quattro soldi, ma ne erano passati altri sei, precedentemente, in cui non avevo cavato un ago dal pagliaio.
E’ come se al momento il mio cervello stia in standby, fermo, immobile, in attesa di chissà quale input. Ma che colpa ho se non ho un computer al posto di quei pochi neuroni sani che mi sono rimasti? Sarebbe tutto più semplice se fossimo tutti robotizzati, sarebbe una vita priva di stress.

Il bianco dovrebbe calmare, o almeno così dicono quelli che professano la cromoterapia, ma in questo momento non riesco proprio a credere che questo bianco possa essermi d’aiuto.
Inspiro ed espiro profondamente, riapro meccanicamente il laptop, che per mia fortuna ho scelto nella classica tonalità del nero, un colore che però dura poco meno di un secondo, un battito di ciglia. Lui è tornato!
No, non parlo del mio capo alias editore obeso portatore di cancro, conosciuto anche con il nome di Roberto. Parlo di quel lui conosciuto anche come: white, blanco, Weiß, blanc… Insomma avete capito… B.I.A.N.C.O. lo spelling può essere utile per capire le parole, sì certo, ma… Ora come lo riempio questo foglio candido, canuto, latteo, esangue, immacolato, smorto, pallido… Oh e ne avrei a milioni di sinonimi che alla fine riportano alla mente sempre e solo lui.
Quanto lo odio!

«Iole calmati!» me lo ripeto mentalmente e un po’ di effetto lo sento. I muscoli del collo si sciolgono, le braccia le sento molli come il DAS nelle mani di un bambino dell’asilo, le gambe tremano leggermente… Uno, due, tre la gallina fa coccodè… Quattro, cinque, sei… Non mi viene una rima per questa serie di numeri. Ansia. Febbre. Le dita si muovono sulla tastiera, ma nel mio cervello rimane imperterrito il bianco, il nulla. Scrivo senza sapere quello che sto facendo, mi lascio trascinare, bianco e nero, nero e bianco, una scacchiera, una camicia macchiata di rimmel sciolto da lacrime inarrestabili, una bambina che piange disperata, la morte, un cane nero con una stella bianca tra gli occhi, un pazzo chiuso in una cella, una mamma che legge un racconto ai suoi figli per farli addormentare, una coppia di amanti che si ritrova dopo dieci anni, una ragazza sola che gioca al computer fingendosi un’altra persona. Quattro, cinque, sei racconti, ancora due si aggiungono. Gli ultimi tre li partorirò nelle prossime settimane, la campana della chiesa sta suonando. Uno, due, tre, quattro, cinque e sei rintocchi. Finalmente posso uscire e mescolarmi nei colori della vita cittadina. Il parco verde, un palloncino rosso, un ombrello giallo. Li bramo e ora li vado a prendere, a rapire con lo sguardo. Alla prossima detestabile bianco protagonista della mia ottava storia scritta
.


(Racconto scritto per il Concorso Letterario "Blusubianco" l'incipit veniva fornito settimanalmente dalla coordinatrice letteraria)

La staticità perduta


INCIPIT: E’ il suo segreto, questa forma di terapia.
Alle cinque, quando ha finito, non vede l’ora di tornare a casa, di togliersi le scarpe e di mettersi in poltrona.
Di solito ha un giornale e una bibita già pronti sul tavolino perché a Paola piace coccolarlo.
Lui beve, legge, si riposa, poi va a fumare una sigaretta sul balcone e aspetta.
Verso le sei e mezzo spunta il gatto sul terrazzo di fronte.
E’ un persiano bianco, di quelli di razza.
Si guarda intorno, poi con un salto raggiunge il cornicione più in basso e fa quella cosa.

 
 «Così inizia la storia che vi sto per raccontare.»
Osservo i due bimbi nei loro lettini, le coperte tirate fin sopra il naso, i loro pupazzi di peluche pronti a difenderli come angeli custodi di pezza. La luce per la notte è accesa, adesso manca solo la storia per la buona notte.
 
«In questa favola non ci sono streghe, principesse, ranocchi, nani, draghi o principi azzurri. I protagonisti sono nonno Giacomo e gatto Silvestro, ma badate bene, non è Silvestro dei cartoni animati, infatti questo gatto è un bel persiano bianco, dalle movenze eleganti e snob, proprio come Duchessa degli aristogatti». I bambini sogghignano al ricordo di quei due gatti piuttosto famosi e che loro gradisco un bel po’ per quel filo di violenza, soprattutto per quanto concerne gatto Silvestro, a differenza di Duchessa. Gli aristogatti sono un cartone che avranno visto una o due volte al massimo, ma che per ora non hanno compreso in pieno.
«Nonno Giacomo come ogni giorno della settimana, sabato e domenica esclusi, torna a casa dal lavoro,  si toglie le scarpe, indossa le pantofole e si lascia scivolare sulla sua poltrona preferita, la stessa che ha la sua forma, dove Paola, sua nipote, non osa sedere per rispetto e anche per quel pizzico di scomodità che percepisce al contatto di quella forma che non le appartiene. Il giornale è posizionato sul piccolo tavolino di legno e viene accompagnato, come sempre, da un bicchiere di vino, l’unico che Paola gli concede. In fin dei conti nonno Giacomo ha una certa età, e Paola è troppo apprensiva. Intorno alle sei e mezza inizia l’altra routine. Il nonno si alza e con passo pesante, rallentato dagli anni che incombono come macigni sulle spalle e sulle gambe, raggiunge il balcone. Il secondo piacere sta nello fumare la sua nazionale, una sigaretta priva di filtro, che lascia un odore forte e riconoscibile tra mille, non odora di sigaretta e basta, odora di nonno Giacomo.» Mi concedo un attimo di pausa per riprendere la storia: «Come vi stavo dicendo, mentre fuma sul balcone lo sguardo va alla ricerca del gatto bianco.»
 
«Ma di chi è quel gatto?» domanda Vincenzo sgranando i grandi occhi marroni, con quel lampo dorato che guizza nelle pupille e che indica quella curiosità infantile che si porterà cucita addosso lungo la vita.
 
«Non si sa di chi sia quel gatto così curato, nessuno nel vicinato pare esserne il padrone, Giacomo ha chiesto informazioni alla pettegola del paese, la signora Annabella, la proprietaria dell’edicola, ma anche lei è all’oscuro di tutto. Un mistero che rimarrà privo di soluzione, come tanti altri del resto e che per il momento possiamo tralasciare». Mento, per non rovinare la sorpresa.
 
«Paola sei tu?» un’altra domanda posta questa volta dal piccolo Alessio, lui segue il fratello in curiosità, anche se è una curiosità totalmente differente. Nata principalmente per emulare il fratello maggiore e non per una curiosità innata e dirompente propria di Vincenzo. Scuoto il capo decisa.
«Non sono io quella Paola, adesso però torniamo alla storia, è già tardi è c’è ancora molto che dovete sapere. Dov’ero rimasta? Ah sì, il balcone. Bene il gatto ogni giorno a quell’ora saltava giù per raggiungere il cornicione del terzo piano, un pazzo, ma è una pazzia che i gatti hanno nel loro sangue, tutti i gatti saltano incuranti delle altezze, e infatti si dice che abbiano sette vite.
Nonno Giacomo si affaccia ulteriormente, vuole capire cosa stia facendo quel gatto, ogni giorno è la stessa storia, la stessa routine.»
 
«Che cosa fa il gatto mamma? Perché il nonno lo osserva?»
«Il gatto semplicemente salta sul cornicione del terzo piano, con circospezione felina si guarda intorno e attende. Una mano diafana spunta dalla finestra, ne accarezza il manto setoso, prima di chiudere la finestra. Il nonno non ha mai visto il resto del corpo o il viso a cui appartiene quella mano dalla carnagione così chiara che ci può riportare alla mente Biancaneve.»
 
«Se c’è Biancaneve allora ci sarà anche un principe e una strega nella storia!» esclama Vincenzo contento per quell’intuizione.
«No, Vincenzo è solo il nome che le daremo, ma non ci sono streghe o principi con spade luccicanti e coraggio da vendere. Non ci saranno lotte o mele avvelenate». La sua espressione dichiara apertamente la delusione di aver sbagliato, eppure persiste ancora la curiosità.
«Come avrete capito questa routine è giornaliera, e va avanti da mesi, e i mesi diventano anni, e in questa favola passano ben due anni. Due anni in cui il nonno si strugge dalla curiosità di saperne di più, e in cui nessun passo in avanti viene fatto verso la conoscenza. Almeno fino al primo novembre. Quel giorno nonno Giacomo si era affacciato al balcone per fumare, e intanto aspettava il gatto bianco, l’attesa fu ricompensata, ma quello che accadde sconvolse tutto l’equilibrio creato in quei anni trascorsi. Nessuna mano apparve da quel piccolo spiraglio nella finestra. La finestra era totalmente chiusa. Il gatto miagolava e spingeva le piccole zampe sul vetro alternando destra e sinistra, destra e sinistra. Paola osservava tutto alle spalle di Giacomo. “La signorina Ivana ha lasciato il gatto fuori?” domanda d’un tratto affacciandosi appena sul balcone. Il nonno la osserva con uno sguardo spaesato “Chi è la signorina Ivana?”
“Come chi è la signorina Ivana? Nonno non ricordi quella donna che ebbe l’incidente d’auto? Quella donna che sopravvisse per miracolo?”. Paola osserva il nonno, il suo scuotere la testa, quella memoria labile come un foglio di carta di riso che, se troppo maneggiato, si squarcia ed è inevitabilmente da buttare. “Io non ricordo questa storia, ma quindi il gatto è della signorina Ivana?” domanda curioso e mortificato per quella memoria che ha deciso da tempo di abbandonarlo. “Non lo so nonno, lo chiedevo a te. Non vedo la signorina Ivana da un anno circa”»
 
L’attenzione dei bambini se da una parte è vigile, dall’altra è offuscata dal sonno che incombe, da Morfeo che li chiama tra le sue braccia per cullarli dolcemente sino al giungere del giorno.
«I due continuano a guardare il gatto, il suo disperato tentativo di richiamare l’attenzione di Biancaneve, o meglio Ivana, ma da dentro nessuno si sporge per alleviare le sue pene. Il nonno prova a chiamare il gatto, ma quello non lo fila nemmeno per sbaglio. Paola intanto va al telefono e chiama un’ambulanza, il suo sesto senso le urla che qualcosa di brutto deve essere successo alla signorina Ivana, la disperazione trasmessa dal gatto si è inculcata in lei, grandi artigli premono per mantenere la presa su quei sensi risvegliati e doloranti. Passa un’ora e finalmente si sente il suono della sirena. Anche la polizia viene chiamata, perché nessuno risponde. Paola e nonno Giacomo tornano ad osservare dal balcone tutto quello che si svolge in strada. Il corpo della signorina Ivana viene portato via in barella, ha avuto un malore, ma è viva. Il nonno si muove irrequieto, si osserva intorno alla ricerca del gatto, ma è sparito. Non c’è più. La sua apparizione in quei due anni è diventata la compagnia di nonno Giacomo e della signorina Ivana, di lui non vi è stata più alcuna apparizione, l’equilibrio monotono della routine è stato spezzato. Ed è così che finisce questa favola moderna. Ricordate che nulla è certo o statico nella vita. Ora chiudete gli occhi e dormite».
 
I bambini non sono soddisfatti, lo vedo dal loro sguardo, Biancaneve, il piccolo persiano bianco fa il suo ingresso nella stanza, mi salta addosso acciambellandosi sulle gambe. Di tutta questa storia siamo rimasti in vita solo io, Paola, e la piccola Biancaneve, figlia di quel persiano bianco. Nonno Giacomo e la signorina Ivana non ci sono più. Com’è totalmente assente, in questa storia, la morale delle classiche favole, certo si potrebbe ricondurre il tutto all’assenza di staticità della vita, ma i bimbi sono piccoli e non capirebbero cosa ciò possa significare, e tantomeno voglio disilluderli già da ora.
 
«Mamma la nostra Biancaneve è uguale al gatto della signorina Ivana». Vincenzo ancora una volta mi sorprende con il suo intuito. Annuisco lievemente, ho omesso molte altre cose nella storia il cui finale non è un vero finale, ma per quello ci sono ancora tante storie della buona notte. Adesso è tardi e loro devono riposare.
«Buona notte piccoli miei» mormoro con un filo di voce tenendo in braccio, come un infante, la piccola palla di pelo bianca. Inizio già da ora a pensare alla prossima storia da raccontare.


(Racconto scritto per il Concorso Letterario "Blusubianco" l'incipit veniva fornito settimanalmente dalla coordinatrice letteraria)

Piccola parentesi nella vita di una nerd


INCIPIT:“Assaggia.”
Il cuore gli batte forte e non sa cosa farsene delle sue braccia, così le tiene incrociate sul tavolo.
Lei gli passa il cucchiaino: sta aspettando. Ci sono tante cose da dire, adesso.
Prima di entrare in casa gli sembrava che si sarebbero esaurite tutte nello spazio che separa l’ingresso dalla cucina. Invece sono stati zitti.
Infila il cucchiaino nella parte bianca della farcitura. Suo padre avrebbe fatto lo stesso.
Il sapore del metallo è la prima cosa che sente, poi c’è solo il dolce che si scioglie sulla lingua
e gli sveglia una parte del cervello che credeva addormentata.
“Lo so perché sei venuto” dice lei nello stesso momento in cui lui si toglie il cucchiaino dalla bocca e chiede: “Cos’è?”



 
Adelaide lo guarda con un cipiglio “Secondo te?” una domanda che dovrebbe far comprendere a lui di aver fatto una delle sue solite gaffe da troglodita, ma è proprio quello il lato che più gradisce tra tutto quello di cui è magistralmente composto.
Rei dal suo canto continua a ingurgitare affamato quella delizia cremosa, che è al contempo dolce e stranamente pungente. Di tanto in tanto osserva quella piccola cucina alla ricerca di indizi che gli dicano: qui c’è stato un altro uomo, ma la stanza è totalmente priva di personalità, i muri pallidi, la cucina è nera, un piccolo quadro raffigura Dracula, sarà un antenato di Adelaide? Se lo domanda senza però darsi una risposta. Non ci sono indizi che possano aizzarlo contro di lei… Lei che gli è mancata più di ogni altra cosa al mondo, lei che è il suo ossigeno, lei che è da poco meno di un anno quella che gli ha sconvolto totalmente la vita, per quell’amore scoppiato come una bomba atomica, che gli ha incrinato ogni ideologia anti-amore. “Non avevo idea che fossi brava ai fornelli” le dice con la bocca piena di crema al cacao. Con la sua conoscenza culinaria, praticamente nulla, lui è riuscito solo a capire, dal colore, che c’è la cioccolata, ma quell’altro retrogusto, il peperoncino, gli è praticamente estraneo, così ben mescolato in quel contesto cremoso.
“Oh… Ma tu non sai praticamente niente di me. L’ultima volta che ci siamo visti… Quanto sarà passato? Sei partito così di fretta, per quella guerra inutile ai fini del vostro Dio, senza nemmeno chiedermi se la nostra fede avrebbe o meno preso parte a…” scuote il capo lasciando tintinnare gli orecchini. “Basta ora sei qui! Non ne voglio più parlare”.
Come al solito lei muta come un camaleonte quando si sente minacciata, però, in questo caso, non vi è alcun pericolo reale se non quello di lasciarsi andare, di dirgli che le è mancato, che voleva Rei nel suo letto ogni giorno, che lo ama. Ma cos’è l’amore per una persona che ha giurato fedeltà ad Sommo Hades?
Rei l’osserva posando il cucchiaino sul tovagliolo, d’un tratto si alza, uno, due passi lunghi con quelle gambe muscolose, frutto di anni di allenamento presso i campi di Poseidone, e la raggiunge. Gli ci vuole un attimo solo per cingerla con forza sorprendente, la sua è una violenza gratuita, ma a lei piace sentirsi stritolare. La stringe a sé mantenendo sempre lo sguardo fisso in quello di Ade, perché è così che è solito chiamarla, si lascia avvolgere da quegli occhi oscuri, neri come la pece, un mare in cui affoga totalmente dimentico della sua capacità di nuotare, ed è lei che sbattendo le lunghe ciglia lo riporta alla realtà celandogli per una frazione di secondo quegli occhi incantatori
“Mio padre non mi ha dato altra scelta. Dovevo prendere parte alla guerra, lo avresti fatto anche tu se lui te lo avesse chiesto!”
Lei annuisce lievemente col capo, consapevole di quanto ciò che lui le ha appena detto è la verità assoluta, lei stessa avrebbe voluto sgranchirsi le ossa picchiando e colpendo mentalmente qualche ignobile nemico, ma la guerra che c’è stata non ha incluso lei o la sua gente. Era solo una scaramuccia tra due piccole fedi diverse dalla sua e al contempo rivali. Sì perché Rei e Adelaide, in realtà sono rivali l’uno dell’altro, ma questo non li ha portati a non essere anche amanti, coscienti che i loro padri divini siano al corrente della situazione creatasi.
“Ti voglio” proferisce Rei senza mezzi termini, senza dolcezza, anzi, con una punta di asprezza, una punta di decisione già presa e minimamente revocabile o discutibile.
“Lo so, e ti voglio anche io” ammette per la prima volta, con le gote totalmente rosse su quella pelle diafana. Si baciano e scaraventano per aria quella crema che li ha riuniti, fanno l’amore con il sapore.
 
In questo punto devo staccare, sono le due di notte, la giocata è stata più che soddisfacente, si sono ritrovati, hanno di nuovo giocato insieme, dopo che gli impegni di Stefano lo avevano tenuto lontano dalla land.
«Grazie per la giocata Stè» glielo scrivo su messenger e lui sorride con quella faccina che mi fa inarcare verso l’alto le labbra. La ruolata è piaciuta anche a lui. Era giusto che Rei e Adelaide si trovassero nuovamente a interagire tra di loro, lui è stato il primo personaggio con il quale la mia Adelaide ha stretto amicizia, da subito è scattato un qualcosa tra noi due player. Un complicità speciale e unica, un legame fatto di byte e html. La vita di un nerd è anche questo: conoscere persone che vivono dall’altra parte della propria regione, ma con i quali poi ci si diverte impersonando vite non nostre, vite che vorremmo e che ci appartengono, ma che per un motivo o per l’altro preferiamo scrivere in un gioco di ruolo, piuttosto che vivere quelle emozioni, quelle occasioni noi stessi. Vite che creiamo e giochiamo instancabili e morbosamente legati ai personaggi creati. Loro sono figli, i nostri “io” non incatenati dalle regole, dalle leggi e dalla normalità.
 
Ora spengo il computer e torno ad essere sola nella mia vita piatta e vuota.


(Racconto scritto per il Concorso Letterario "Blusubianco" l'incipit veniva fornito settimanalmente dalla coordinatrice letteraria)

Senza titolo (per E.)


Tienimi stretta a te fammi danzare.
Illuminami ancora con l'illusione che
domani sarà tutto migliore.
Il fumo di una sigaretta profuma l'aria
il mio cuore batte piano per non svegliarti
Ti vedo steso li e mi sembri irragiungibile
Sei distante e lontano mille miglia da me
eppure cosi vicino da far sì che la mia mano
possa accarezzarti... Mi hai reso il cuore
vulnerabile, ed io ho mentito...
Stai con un'altra... l'ho capito!