INCIPIT: Mi dico che è il momento giusto e devo sbrigarmi. Certo, sarebbe più facile se ci fosse un foglio di carta: prenderei la penna e le parole non rimarrebbero incastrate in una vena del cervello o nella gola; scenderebbero fino alla mano, sporcherebbero il foglio, ci resterebbero attaccate con tutto quello che si portano dietro. E’ il potere della pagina bianca, credo. Ti risucchia e ti libera: è la tua possibilità di buttarti da un’altra parte.
“Allora?” mi chiede il mio editore, accendendosi una sigaretta.
“Ci sto lavorando!” mento spudoratamente, chiudendo il portatile, spero che lui creda che sia scaramantica, che non gli mostro lo schermo per evitare il non apprezzamento di quanto ho scritto sino ad ora… Sì ma cosa ho scritto? Il mio cervello è totalmente privo di ogni sorta di immagine mentale. Il nulla, il vuoto, l’assenza totale di tutto. Non c’è alcuna fotografia mentale, nessun colore, nessuna parola. Il bianco. Maledetto sia il bianco!
“Di preciso di cosa hai intenzione di scrivere questa volta?” aspira goloso e vizioso una boccata di veleno da quella sigaretta totalmente bianca. Eccolo! Ancora una volta quel colore nefasto. Deglutisco a vuoto alzando appena lo sguardo. Mi impongo di non arrossire, di non palesare, come al solito, quello che sto percependo, soprattutto con questa domanda che meriterebbe una risposta da un milione di dollari.
“Se te lo dico… Dopo dovrei ucciderti” sorrido e mi sento un ebete. I miei denti! Devo mostrarglieli di più. Ecco! Da brava allarga le labbra fino a sentire i muscoli delle guance tirarsi dolorosamente. Questa storia, questa lotta tra sorrisi falsi quanto una banconota da tre euro e le menzogne, vanno avanti già da sei mesi. Una tortura, ecco quello che è realmente. Ma questo obeso portatore di cancro che cosa può saperne?
Bravo! Vattene via! Non mi stressare più!
Finalmente se ne è andato, altre due ore e posso fuggire via da questa stanzetta dalle pareti bianche, di sicuro lo fanno di proposito. Mi riempiono la vita di un colore che addosso mi sta come un pugno in un occhio. Figuriamoci. Una prigionia vera e propria. Ok, lo ammetto, me la sono cercata. Da sei mesi mi hanno costretta a lavorare in questo bunker di scrittori da quattro soldi, ma ne erano passati altri sei, precedentemente, in cui non avevo cavato un ago dal pagliaio.
E’ come se al momento il mio cervello stia in standby, fermo, immobile, in attesa di chissà quale input. Ma che colpa ho se non ho un computer al posto di quei pochi neuroni sani che mi sono rimasti? Sarebbe tutto più semplice se fossimo tutti robotizzati, sarebbe una vita priva di stress.
Il bianco dovrebbe calmare, o almeno così dicono quelli che professano la cromoterapia, ma in questo momento non riesco proprio a credere che questo bianco possa essermi d’aiuto.
Inspiro ed espiro profondamente, riapro meccanicamente il laptop, che per mia fortuna ho scelto nella classica tonalità del nero, un colore che però dura poco meno di un secondo, un battito di ciglia. Lui è tornato!
No, non parlo del mio capo alias editore obeso portatore di cancro, conosciuto anche con il nome di Roberto. Parlo di quel lui conosciuto anche come: white, blanco, Weiß, blanc… Insomma avete capito… B.I.A.N.C.O. lo spelling può essere utile per capire le parole, sì certo, ma… Ora come lo riempio questo foglio candido, canuto, latteo, esangue, immacolato, smorto, pallido… Oh e ne avrei a milioni di sinonimi che alla fine riportano alla mente sempre e solo lui.
Quanto lo odio!
«Iole calmati!» me lo ripeto mentalmente e un po’ di effetto lo sento. I muscoli del collo si sciolgono, le braccia le sento molli come il DAS nelle mani di un bambino dell’asilo, le gambe tremano leggermente… Uno, due, tre la gallina fa coccodè… Quattro, cinque, sei… Non mi viene una rima per questa serie di numeri. Ansia. Febbre. Le dita si muovono sulla tastiera, ma nel mio cervello rimane imperterrito il bianco, il nulla. Scrivo senza sapere quello che sto facendo, mi lascio trascinare, bianco e nero, nero e bianco, una scacchiera, una camicia macchiata di rimmel sciolto da lacrime inarrestabili, una bambina che piange disperata, la morte, un cane nero con una stella bianca tra gli occhi, un pazzo chiuso in una cella, una mamma che legge un racconto ai suoi figli per farli addormentare, una coppia di amanti che si ritrova dopo dieci anni, una ragazza sola che gioca al computer fingendosi un’altra persona. Quattro, cinque, sei racconti, ancora due si aggiungono. Gli ultimi tre li partorirò nelle prossime settimane, la campana della chiesa sta suonando. Uno, due, tre, quattro, cinque e sei rintocchi. Finalmente posso uscire e mescolarmi nei colori della vita cittadina. Il parco verde, un palloncino rosso, un ombrello giallo. Li bramo e ora li vado a prendere, a rapire con lo sguardo. Alla prossima detestabile bianco protagonista della mia ottava storia scritta.
(Racconto scritto per il Concorso Letterario "Blusubianco" l'incipit veniva fornito settimanalmente dalla coordinatrice letteraria)
mercoledì 16 febbraio 2011
Uno, due, tre… Quattro, cinque, sei
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