lunedì 16 febbraio 2015

Lettera n°45


Non so cosa mi spinga ancora a scriverti. Non so che senso possa avere, quanto possa essere o meno importante il continuare ad esternare quello che provo e che sento, il porre domande a cui non riceverò mai più alcuna risposta o il semplice informarti di come procede (o si trascina) la mia vita (o quel che ne rimane). Il livello di pateticità ha toccato il fondo, cosi come l'incapacità di abbandonare, recidere o andare oltre quel che non è stato e non sarà. Una finzione atta al nulla, che ha portato solo la sottoscritta a stare male. Vorrei odiarti, credimi, lo vorrei con tutte le mie forze, vorrei urlare a chiunque che tu sia uno stronzo bugiardo, un attore nato, un omuncolo perfido e vigliacco, ma non ci riesco, non riesco a vederti sotto alcuna luce negativa, per quanto possa essere stata (secondo te) cattiva in determinati momenti, penso che avrei potuto esserlo di più, molto di più se solo lo avessi voluto realmente, se solo lo avessi creduto veramente. La realtà dei fatti invece è un'altra, e non voglio giustificarti, l'ho fatto per cosi tanto tempo che ormai dovrebbe venirmi spontaneo continuare a farlo, ma con un minimo di logica e lucidità (quel po' che di tanto in tanto torna ad affacciarsi da queste parti) posso asserire con certezza che nonostante tutto il dolore che mi hai inflitto e continui ad infliggermi, nonostante l'avermi spinta delicatamente ad esternare chi io sia veramente, ad aver preso da me tutto quello che hai voluto, ad aver conosciuto di me anche ciò che altri non avrebbero mai saputo, insomma, nonostante tutto ci sono stata anche io in quella farsa che chiamavo relazione, per quanto possa esser scesa a compromessi pur di non perderti, per quanto abbia annullato me stessa per poter evitare litigi e bisticci (che secondo me servono anche per conoscersi), per quante parole ho speso, per quanto tempo ho perduto e ti ho donato, per tutto quello che poteva o è stato. Io c'ero. Ci sono sempre stata. Tu andavi a momenti. Ora so il perché, fingo di sapere anche il perché adesso tu non ci sia, ci provo perlomeno. Venti giorni senza di te. Venti giorni senza di me. Sei tornato a vivere. Le giornate stanno migliorando, ora avrai una buona scusa per stare più spesso fuori casa, non entrare a contatto con qualcosa che possa (forse) ricordarti di me. Io non so se quelle che ad oggi mi appaiono solo parole buttate li, siano state o meno realmente sentite, se cosi lo fosse, se hai sentito e creduto in quello che mi dicevi allora non riesco a spiegarmi come tu possa essere cosi dolorosamente distaccato, menefreghista e disinteressato. Come tu possa aggrapparti a quella stronzata del rispetto nei miei riguardi, quando sai perfettamente che l'abbandono per me pesa più di un "non ti amo". Quello che più fa male è proprio quello. Non lo hai capito, non ti è importato, stai dando per scontato che passerà. Non passa, ma cosa vuoi saperne tu? Non so più che senso abbia scriverti. Le parole restano parole, quello che sento o sentirò non ti importa e non ti importerà più. Non ha più senso. Logoro e faccio del male sempre e solo a me stessa, in un caso o nell'altro la sostanza del dolore non muta. Se scrivo o meno il dolore, l'amore e l'assenza restano invariate. Ti odio! (sappiamo entrambi che non è vero)

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